L'Organizzazione Mondiale della Sanita' e alcuni istituti europei, come la Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, considerano da tempo le relazioni sociali nei luoghi di lavoro come problemi di salute e sicurezza lavorativa. Il fattore di rischio in questo caso e' legato a situazioni di conflitto, discriminazioni, violenze fisiche, molestie e altre violenze psicologiche. È noto che alcuni ambienti di lavoro e in particolare alcuni compiti, piu' frequentemente di altri, espongono lavoratori e lavoratrici a possibili violenze, soprattutto fisiche. È il caso delle attivita' di polizia, vigilanza, di quelle ove vi e' contatto con denaro, beni preziosi o con un utenza particolarmente disagiata (banche, uffici postali, ospedali psichiatrici, per esempio), come anche di quelle svolte di notte, soprattutto se in ambiente esterno (trasporti). In tali ambiti i datori di lavoro, pur ammettendo l'esistenza di rischi elevati, tendono pero' a sottrarli dal contesto di responsabilita' e obblighi giuridici definiti dalla normativa di prevenzione, quindi anche da competenze, ruoli, obblighi informativi, formativi e partecipativi/consultivi che essa stabilisce. Laddove poi gli episodi risultano rari o i danni minori, i datori di lavoro non li considerano neppure. Le istituzioni sopra citate non si limitano a osservare gli ambienti di lavoro e le attivita' piu' direttamente correlate a rischi di violenza fisica, ma cercano di cogliere, far emergere e indicare percorsi, per affrontare i variegati pericoli relazionali. Gli Rls, gli Rspp, i medici competenti, oltre che i datori di lavoro, il sindacato, le istituzioni nazionali e territoriali e gli organismi paritetici dovrebbero cominciare ad assumere questa visione. Una cultura organizzativa arretrata, unita al ricatto occupazionale, stanno determinando una crescita del problema soprattutto nelle piccole imprese, i cui lavoratori non sono protetti dal licenziamento. Ma anche l'individualismo imperante e i modelli arcaici di relazioni sociali e interpersonali concorrono a far considerare normali o trascurabili, quando non addirittura esaltabili, modelli comunicativi e comportamentali caratterizzati da aggressivita', sopruso e negazione della dignita' altrui. Il rischio relazionale non e' stato ancora definito con precisione. Si puo' considerarne l'esistenza quantomeno in tutte le situazioni in cui la persona e la sua individualita' (psicologica e/o fisica) non siano rispettate o addirittura vengano negate o violate: da parte dell'azienda, ovvero della sua gerarchia, e nell'azienda, ovvero nei rapporti tra colleghi, come pure da parte di altre figure (fornitori, clienti, utenti). Non e' sempre facile individuare la soglia oltre la quale si passa da criticita' comunicative e comportamentali a veri e propri rischi. I Paesi del Nord Europa, che da piu' tempo considerano e affrontano queste problematiche, hanno coniato terminologie quali bossing, bulling, mobbing, che delineano rischi lavorativi contrassegnati da comportamenti sufficientemente definiti. Tutti hanno in comune (con le molestie e le violenze, sessuali e non) l'aspetto di abuso e sopruso perpetrato nei confronti di una persona. Il bossing e' prevalentemente individuato come una strategia aziendale mirante a eliminare una o piu' persone indesiderate, attraverso la creazione, intorno a essa/e e in esse, di un clima di tensione insopportabile o comunque assai forte: atteggiamenti severi, minacce, rimproveri, a volte anche sabotaggi difficilmente dimostrabili. I mezzi utilizzati possono anche essere meno estremi, come il dequalificare o squalificare la persona, privandola di qualsiasi opportunita' di compiere qualcosa di costruttivo. Il bulling e' visto invece come un comportamento offensivo, intimidatorio, malizioso, insultante o umiliante derivante da abuso di potere o di autorita', che giunge a minare psicologicamente un individuo o un gruppo di lavoratori. Puo' essere condotto in modi piu' o meno evidenti, talvolta sottili e difficili da dimostrare. Il sindacato inglese Unison-Tuc ha svolto al riguardo un'inchiesta fra i suoi iscritti, curata dalla Stafforddshire University, riscontrando che due terzi di loro avevano avuto esperienza diretta o indiretta di tali comportamenti. I piu' frequentemente descritti sono stati: nascondere informazioni, rimproverare malamente, assegnare obiettivi irrealistici di lavoro, criticare persistentemente, sgridare e minacciare, assegnare compiti senza significato, ignorare la persona, controllarla eccessivamente, umiliarla in pubblico, segregarla, far circolare pettegolezzi malevoli. Il mobbing, descritto ormai frequentemente anche in articoli giornalistici, e' assimilabile alla sfera dei comportamenti persecutori sopradescritti, ma coinvolge, o arriva a coinvolgere, rapporti tra colleghi/e, per lo scatenarsi di forme di gelosia, di surclassamenti ingiustificati, ecc. In Svezia, sul totale dei suicidi avvenuti in un anno, una percentuale fra il 10 e il 20% sarebbe attribuibile a fenomeni di mobbing. Si arriva infatti a definire il mobbing anche come forma di terrore psicologico esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte dei colleghi o dei datori di lavoro. Occorre fare emergere e affrontare il disagio. È importante cominciare col mettere a fuoco la specificita' di pericoli e rischi che si presentano, la loro estensione e/o localizzazione, la loro consistenza, le persone o gruppi di persone piu' esposte. Puo' essere utile partire con l'esaminare il modello e il contesto organizzativo aziendale, che e' spesso l'origine di tali rischi, e sicuramente anche il processo produttivo reale e le tipologie di problemi e rischi relazionali peculiari delle sue diverse fasi. Questo aiutera' a individuare le sorgenti di rischio, le possibili cause, generali e/o specifiche, le persone maggiormente esposte, le soluzioni. Con gli esposti, o i gia' colpiti, occorrerebbe, in modo attento e sensibile, se necessario anche riservato, discutere e approfondire il problema, ipotizzando soluzioni e informando gli interessati sui diritti esistenti. Per i casi piu' gravi, e comprovabili, si potra' procedere a denunce. Piu' spesso si trattera' di ragionare su interventi correttivi/modificativi (eventualmente preceduti da adeguate indagini) di tipo organizzativo, piu' o meno ampi e profondi, solitamente accompagnati da percorsi formativi, o comunque atti a superare i limiti dello scontro diretto e soggettivo, che puo' in molti casi risultare perdente, inefficace o non praticabile. Non di rado il problema e' di gruppo, al di la' del fatto che possa apparire o emergere in un primo tempo come individuale. Non va inoltre dimenticato che l'esistenza di questi rischi comporta anche perdita di produttivita' e spesso di immagine aziendale. Ecco le norme alle quali si puo' fare riferimento. Per le molestie sessuali si dispone attualmente di un codice di comportamento europeo, di un disegno di legge italiano e di un certo numero di regolamenti aziendali, e della possibilita' di avvalersi di competenze specifiche (comitati e consigliere di parita', coordinamenti donne, ecc.) per orientarsi adeguatamente. Esiste anche una norma contrattuale presente nel contratto dei metalmeccanici. Per le violenze sessuali il nostro riferimento e' la legge n. 66 del 1996. Per altri rischi di violenza psicologica in Italia non esistono ancora riferimenti ad hoc, anche se le conseguenze dello stress subito risultano molteplici e ne giustificherebbero l'emanazione. Comportano infatti seri disagi e in alcuni casi danni gravi piu' o meno permanenti, quali la riduzione/perdita di autostima e di salute anche fisica, l'abbassamento o azzeramento delle capacita' lavorative, l'abbandono del posto di lavoro e perfino suicidi. Sotto il profilo giuridico (condanna e risarcimento), in situazioni gravi e comprovabili, si configurano danni morali, biologici, patrimoniali. In taluni casi e' anche invocabile l'art. 610 del codice penale, riferito alla violenza privata. L'art. 41 della Costituzione della Repubblica Italiana, recita: "L'iniziativa economica privata e' libera, ma non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana." L'art. 2087 del codice civile afferma poi che: "Il datore di lavoro e' tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarita' del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrita' fisica e la personalita' morale dei prestatori di lavoro". L'art. 6 lettera g) della direttiva quadro europea, pone inoltre tra gli obblighi generali del datore di lavoro quello di "programmare la prevenzione, mirando a un complesso coerente che integri nella medesima la tecnica, l'organizzazione del lavoro, le relazioni sociali, e l'influenza dei fattori dell'ambiente di lavoro." Lo ritroviamo nell'art 3 lettera d) del d.lgs 626, accorciato (delle relazioni sociali) e camuffato (nel riferimento all'organizzazione del lavoro), essendo stato recepito dal nostro legislatore con una formulazione piu' blanda, ovvero: "programmazione della prevenzione mirando a un complesso che integra in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche e organizzative dell'azienda nonché l'influenza dei fattori dell'ambiente di lavoro." Non scoraggiamoci: i contenuti della direttiva europea non possono in alcun modo essere ridotti ma solo migliorati; pertanto la dizione utile per interpretare anche il significato dell'art. 3 del nostro decreto legislativo e' quella integrale della direttiva europea. In caso di rifiuto si puo' ricorrere al Magistrato e alla Corte di Giustizia Europea. Altre particolari norme possono poi venire considerate e invocate sulla base dei diversi casi concreti che si presentano. Questo tipo di problematiche non puo' essere lasciato in silenzio o meramente delegato a chi agisce all'esterno della sfera della prevenzione dei rischi lavorativi. Occorrerebbe, per esempio, riuscire a inserirlo anche nel documento di valutazione dei rischi lavorativi, il cui fine e' quello di garantire un adeguato benessere psico-fisico-sociale a ciascun soggetto e gruppo di soggetti, non solo di tutelarli dai rischi fisici piu' tradizionali. Tra i soggetti particolarmente esposti possiamo trovare donne, giovani, anziani, immigrati, persone con handicap, le persone piu' fragili in generale e, diffusamente, chiunque si trovi in condizione di ricatto occupazionale e/o in aziende con culture individualistiche o arretrate. L'art. 4 del d.lgs. 626 indica l'obbligo per il datore di lavoro di "valutare i rischi per la salute e sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari." Segnalateci le vostre eventuali esperienze. E' importante conoscerle per far uscire dal sommerso quanto accade nei nostri ambienti di lavoro. Segnaliamo intanto che in Italia e' costituita un'associazione contro il mobbing e lo stress psico-sociale. Fa ricerca, formazione, fornisce assistenza a lavoratori e imprese. Ha pubblicato diversi libri sull'argomento.
Per informazioni rivolgersi a:
Associazione Prima,
via Tolmino 14, 40134 Bologna.
Tel. 051/614.89.19, fax 051/94.19.26,
e-mail: harald.ege@iol.it
E' presente nel sito web: http://aziende.iol.it/prima
Se siete al corrente dell'esistenza di ambiti che si occupano di questi problemi, o comunque avete notizie da farci pervenire, scrivete o faxate alla redazione del Gazzettino della prevenzione.
PRIMO CONVEGNO SUL MOBBING
Il 24 febbraio si e' tenuto a Milano il primo seminario nazionale sul mobbing. Il convegno, organizzato presso la Clinica del Lavoro Luigi Devoto, ha visto la partecipazione dei maggiori esperti italiani della materia. Il Dottor Harald Ege ha esposto i risultati della prima ricerca italiana sul mobbing. La partecipazione al convegno e' stata notevole, in Italia il problema del mobbing e' ancora poco studiato e l'interesse e' in crescita.